Mahabharata

 

VANA PARVA

 

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La storia di Nahusha

  Dopo alcuni mesi il santo Lomasa partì. E non trascorse molto tempo che anche i Pandava decisero di lasciare le vette himalayane e ridiscendere a valle per fare ritorno a Kamyaka.
  Come sempre, durante il cammino, i fratelli ebbero modo di visitare molti posti interessanti, fra cui l'ashrama di Vrishaparva.

  Un giorno, mentre Bhima era solo nella foresta, non s'avvide della presenza di un gigantesco pitone sul ramo di un albero, per cui, quando vi passò sotto, fu serrato nelle sue spire. Il figlio di Pandu non prestava mai particolare attenzione ai pericoli rappresentati dagli animali della giungla, in quanto credeva di essere abbastanza forte da poter superare ogni avversità. Così, quando tentò di liberarsi allargando le sue forti braccia, si sorprese di non riuscirci. Allora cercò di impiegare tutta la forza a sua disposizione, ma il corpo dell'animale sembrava fatto del metallo più duro. La cosa strana era che più energia adoperava, più sentiva che gli venivano meno. Quello non poteva essere un normale pitone.

  "Chi sei tu," chiese il Pandava, stremato, "che resisti alla pressione delle mie braccia? Sicuramente non sei un comune serpente, altrimenti il tuo corpo si sarebbe già spezzato."

  "Tanto tempo fa ero un re molto famoso; poi il rishi Agastya mi maledisse a nascere in questa miserabile forma vivente. Ma ora non ho voglia di parlare. Oggi sono particolarmente affamato, e la provvidenza ti ha mandato a me per sfamarmi."

  Nel frattempo Yudhisthira, che aveva scorto in cielo presagi di un'immane tragedia, si informò su chi dei suoi fratelli mancava. Quando gli dissero che Bhima non era lì, questi preoccupatissimo si lanciò nella densa boscaglia, sulle sue tracce. Lo trovò avvolto nelle spire del gigantesco pitone mentre si divincolava quasi privo di energie. Realizzò immediatamente che ci doveva essere qualcosa di strano. Chi avrebbe potuto ridurre Bhima in quello stato?

  "Chi sei tu," gli chiese, "che sei stato capace di privare di tutte le sue forze il possente figlio di Vayu? Rivelami il tuo nome e la tua storia."

  "Io sono Nahusha, uno dei vostri antenati. Giacchè lo hai chiesto, ascoltatemi bene, e ti narrerò in breve la mia storia.

  "Quando Indra dovette nascondersi per espiare le offese arrecate al guru Vishvarupa e per l'assassinio del demone Vritra, il trono dei deva rimase vacante. I rishi allora vennero da me, sulla Terra e mi chiesero di sostituire il loro re finchè questi non fosse tornato. Io che non mi ritenevo sufficientemente potente per governare sull'intero universo nè per scontrarmi con gli asura più forti, esternai loro le mie perplessità. Ma i saggi mi rassicurarono: 'Non temere, noi ti doneremo il potere di assorbire l'energia di qualsiasi essere vivente che incontrerai di modo che potrai fronteggiare tutte le emergenze e sovrastare qualsiasi avversario.' Così cominciai a governare su Svarga con sufficiente rettitudine, obbedendo sempre ai consigli dei santi.

  "Tuttavia a un certo punto il potere mi giocò un brutto scherzo e cominciai a pensare di essere diventato oramai invincibile. Mi invaghii della moglie di Indra, Saci, e pretendevo che diventasse mia. Lei, casta e fedele al marito, mi rifiutò diverse volte. Per queste ragioni i deva e i brahmana si videro costretti a congiurare per mettere fine al mio governo empio.

  "Un giorno Saci mi disse: 'Sarò tua se verrai a casa mia su un palanchino sorretto dai sette rishi, tra cui Agastya.' Io, che ero come impazzito per la sua bellezza divina, pur di averla non pensai al grave peccato che stavo per commettere e ordinai ai saggi di portarmi. E mentre andavamo verso la casa di Saci, impaziente di possederla, calciai più volte il venerabile Agastya, dicendogli: 'sarpa, sarpa!'. Sarpa significa 'presto', ma anche serpente. Allora il rishi mi maledisse dicendomi: 'Giacchè mi hai scalciato come un villano senza cultura, diventerai un sarpa sulla Terra, e vivrai a lungo in quelle condizioni. Ti libererai solo quando qualcuno saprà rispondere perfettamente alle domande più complicate sul sapere umano.'
  "Per questa ragione io vivo ancora oggi come un pitone in questa giungla, e ora mi sfamerò con il corpo di tuo fratello, a meno che tu non voglia tentare di rispondere alle mie domande."

  "Dimmi, voglio tentare."

  La discussione si protrasse per diverso tempo e poichè il Pandava rispondeva a tutte le questioni che Nahusha gli poneva, alla fine questi liberò Bhima: come d'incanto il corpo del rettile scomparve e al suo posto si manifestò la sua forma umana originale. Davanti ai loro occhi, Nahusha ascese al cielo. Bhima era salvo.

  Ripreso il viaggio, i fratelli si fermarono per diverso tempo nella pacifica foresta di Dvaita, che avevano avuto modo di visitare durante l'andata. Ora che il periodo d'esilio stava scadendo, nessuno riusciva più a prestare veramente attenzione alle bellezze naturali: i pensieri di tutti erano rivolti al giorno della guerra.

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Ritorno a Kamyaka

  Quell'anno la stagione delle piogge era stata particolarmente terribile: i monsoni avevano spirato con furia inaudita. L'autunno, con il suo sole tiepido e le sue giornate quiete fu accolto con gioia da tutti. I Pandava approfittarono dell'arrivo della bella stagione per ritornare a Kamyaka.

  Krishna, che era stato informato delle ultime notizie riguardanti gli amici, decise di far loro visita a Kamyaka insieme alla moglie Satyabhama. E' superfluo raccontare della gioia dei Pandava: per loro ogni volta che il figlio di Devaki andava a trovarli era un evento straordinario. Era la persona che amavano di più, la loro vita stessa.

  Krishna immediatamente si apprestò a rassicurarli riguardo ai loro familiari che da anni vivevano a Dvaraka.

  "Subhadra e tuo figlio Abhimanyu stanno bene con noi," disse ad Arjuna, "e anche i figli di Draupadi godono di ottima salute e crescono vigorosi e sani nel corpo e nell'anima. Tutti stanno studiando alacremente, tanto che sono già quasi diventati dei maestri nell'arte guerriera. Manca ancora poco tempo, e poi potrete rivederli e riabbracciarli."

  Nei giorni in cui Krishna era a Kamyaka, arrivò anche Narada e dopo un pò Markandeya.

  Trascorsero ore fantastiche parlando di tante cose, e in special modo quest'ultimo estasiò tutti con narrazioni di avvenimenti accaduti milioni di anni prima, quando aveva visto Krishna durante una delle distruzioni dell'universo e aveva appreso che era il Signore Supremo. Qualche giorno dopo, Krishna tornò a Dvaraka.

  Ma in casa Kurava cosa succedeva? Mentre nei primi anni Duryodhana si era sentito finalmente felice di essersi sbarazzato dei cugini, ora riavvertiva le vecchie ansietà, aggravate dal pensiero della loro vendetta. I momenti sereni stavano per finire. Probabilmente aveva creduto che tredici anni fossero più lunghi, ma poi aveva dovuto ricredersi e constatare con mano la fugacità delle situazioni terrene.

  Proprio in quel periodo giunse ad Hastinapura un brahmana di passaggio che raccontò le avventure di Arjuna a Svarga e in special modo si soffermò sulla storia dello sterminio degli asura. Quelle notizie non sortirono sicuramente un effetto tranquillizzante sull'anziano re cieco, il quale nonostante le smargiassate di Duryodhana e Karna non riusciva più a dormire sonni sereni. 
  Aveva troppa paura per la vita dei suoi figli.

  Invece Duryodhana, accecato dall'orgoglio e dall'invidia, aveva piena fiducia nelle capacità guerriere del suo caro amico. Karna, da parte sua, volendo risollevare gli animi si accordò con Shakuni e Duryodhana su un piano che sarebbe servito loro a ridicolizzare i Pandava, che a quel tempo si trovavano a Dvaitavana.

  "Organizziamo un viaggio di piacere," propose Karna, "e portiamo con noi le nostre famiglie e gli amici più cari. Arrivati a Dvaitavana potremo andare a trovare i figli di Pandu e prenderci gioco di loro, mettendo la nostra ricchezza a confronto con la loro povertà. Moriranno dalla rabbia, e noi potremo gustare la gioia del trionfo."

  "Sarebbe bello, ma mio padre non permetterà mai una cosa simile," ribattè però Duryodhana. "Ha troppa paura della loro forza e temerebbe una reazione."

  "Ma non c'è bisogno di dirgli la verità," intervenne Shakuni, "possiamo dirgli che andiamo a controllare i nostri pascoli e le nostre mandrie che sono proprio da quelle parti, e promettergli che non avremo contatti con i Pandava."

  Naturalmente entusiasta per l'idea, Duryodhana la propose al padre.
  Questi non ne fu affatto contento in quanto sapeva che i nipoti si trovavano proprio in quella zona; ma poi, pressato dal figlio, come al solito cedette.

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Duryodhana sconfitto e umiliato

  Così Duryodhana e i suoi amici e fratelli, tutti di ottimo umore, accompagnati da un forte contingente di soldati, si diressero verso i boschi di Dvaita.

  Appena arrivati, Duryodhana ispezionò le sue mandrie e trovatele in ottima salute, distribuì generosi doni ai pastori. Poichè faceva molto caldo, decisero di andare a rinfrescarsi nelle acque di un lago nei pressi della foresta. Ma, giunti nelle vicinanze, si accorsero che un nutrito drappello di soldati si era accampato proprio dove il re voleva fare il bagno.

  Stizzito dall'inconveniente, Duryodhana ordinò a dei messaggeri di andare a dire al comandante di far sgombrare le rive del lago. I portavoce, introdotti al generale, riferirono le parole del loro monarca.

  "Il nostro signore, il glorioso discendente di Bharata, il re Duryodhana, vi ordina di levare l'accampamento e di andare da qualche altra parte, in quanto egli ha scelto questo posto per bagnarsi e far riposare gli uomini e i cavalli. Se non andrete via immediatamente si vedrà costretto a farvi saggiare la sua potenza militare."

  "Noi siamo dei gandharva," ribattè l'altro per nulla intimorito dalle minacce, "e io sono Citraratha, il loro re. Questo lago non appartiene a Duryodhana. Siamo arrivati qui prima noi, dunque nè Duryodhana nè altri possono ordinarci di abbandonare il posto. Che si trovi lui un altro lago dove ristorarsi. Per quanto riguarda la sua forza militare, riferitegli che questa è l'ultima delle nostre preoccupazioni."

  Non appena i soldati ebbero riportato la risposta del gandharva, una grande ira si impossessò del suo cuore e immediatamente ordinò l'attacco. 

  Ma la battaglia si rivelò subito un vero disastro: soverchiati e massacrati dalle armi divine dei gandharva, i Kurava, Karna compreso, dovettero darsi alla fuga. Sul campo rimase solo Duryodhana che, schiumante di rabbia, era cosparso su tutta l'armatura e il corpo di sangue e di frecce. Abbandonato da tutti, in pochi minuti venne fatto prigioniero.

  In lontananza i soldati Kurava videro il loro re catturato dai gandharva, e consci di non potersi opporre con le armi, per liberarlo non videro altra soluzione che andare dai Pandava a chiedere aiuto.

  Quando Bhima sentì il racconto rise a voce alta.

  "Erano venuti per prendersi gioco di noi e guarda cosa gli è capitato. Povero Duryodhana. E lui che si fida tanto di Karna! Dove stava costui mentre i gandharva facevano prigioniero il suo amico? Dobbiamo andare da loro e ringraziarli per ciò che hanno fatto."

  Ma Yudhisthira non fu dello stesso avviso.

  "Nonostante i tanti torti che abbiamo dovuto subire per opera sua," disse, "Duryodhana è pur sempre un membro della nostra famiglia, e i suoi soldati sono venuti qui per chiedere protezione e aiuto. Non possiamo rifiutarci di intervenire. Anche se non lo merita affatto, anche se il suo animo è buio come la notte, noi andremo a liberare il figlio di Dritarashtra."

  Allora Arjuna andò a chiedere ai gandharva di liberare il loro prigioniero. Ma poichè essi si rifiutarono, i Pandava combatterono e li sconfissero duramente. Alla fine Arjuna riconobbe nel loro capo l'amico Citrasena, al quale chiese di liberare Duryodhana. Citrasena accettò.

  Duryodhana, demoralizzato, andò via in preda a una profonda sofferenza. Era venuto per umiliare ed era stato umiliato.

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La disperata decisione

  Radunate tristemente le sue truppe, Duryodhana, evidentemente immerso in foschi pensieri, ripartì alla volta di Hastinapura. Tuttavia lungo la strada volle fermarsi in un posto solitario e, sceso da cavallo, si sedette in una posizione yoga. Fu in quel momento che giunse Karna, che era stato costretto alla fuga durante il combattimento.

  "Amico, vedo che sei vivo e ancora in testa alle tue truppe. Ciò vuol dire che sei riuscito ad importi sui potenti gandharva, contro i quali persino i deva hanno difficoltà ad avere la meglio. Gloria a te, Duryodhana; oggi hai compiuto un'impresa che sarà decantata dai poeti nei millenni che verranno."

  Ma Duryodhana lo disilluse subito.

  "Ti sbagli, amico mio. Se sono qui in questo momento debbo ringraziare le uniche persone al mondo dalle quali mai avrei accettato un favore del genere. Io non ho sconfitto i gandharva: i Pandava lo hanno fatto per me. E non è tutto. Pensa che Yudhisthira, ridandomi la libertà, mi ha detto: 'Va via, cugino, non essere più malvagio come lo sei sempre stato.' Capisci? Mi hanno liberato per pietà. Quale umiliazione!"

  Duryodhana si fermò un attimo, come per rimettere in ordine i propri pensieri. Karna intanto era rimasto sbigottito.

  Poi riprese.

  "Non potrò mai sopportare una cosa simile. Tu non li hai visti combattere: il fatto che loro hanno avuto successo dove noi abbiamo fallito è l'ennesima e inequivocabile prova della loro su-periorità. Essi ci sovrastano, non c'è più dubbio alcuno, proprio come Bhishma, Drona, Vidura e Kripa amano ripeterci con assillante insistenza. E io non voglio vivere in un mondo dove costoro ottengono le glorie e io le sconfitte; per cui ho deciso: oggi abbandonerò questo inutile corpo con il quale non riesco a ottenere ciò che desidero. Mio fratello Dusshasana mi succederà al trono e tu gli sarai vicino come lo sei stato con me. Addio, amico mio caro."

  Le insistenze e gli argomenti dei fratelli e degli amici sembrava non riuscissero a fargli cambiare idea: il Kurava, deciso a privarsi di cibo fino a morirne, si era chiuso in sè stesso e non rispondeva più.

  In quel momento gli asura sui loro pianeti si allarmarono. Duryodhana era il loro inviato principale sulla Terra e per frustrazione stava per abbandonare la missione. Subito celebrarono un grande sacrificio, durante il quale chiamarono Duryodhana e lo convinsero a non lasciare il corpo.

  Dopo qualche giorno questi abbandonò il suo proposito e riprese il comando delle truppe, tornando ad Hastinapura.

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Il rajasuya di Duryodhana

  La notizia dell'avvenimento scosse la corte Kurava.

  Tutti rimasero impressionati dalla narrazione delle gesta di Arjuna durante il combattimento contro i gandharva. Bhishma, specialmente, non si lasciò sfuggire l'occasione di rimproverare e mettere in guardia il nipote ancora una volta. Ma stavolta Duryodhana, che non desiderava ascoltare discorsi moralistici, finì con l'insultare il figlio di Ganga che uscì dalla sala disgustato.

  Karna, intanto, rifletteva sulla sconfitta subita che aveva indubbiamente seminato un generale senso di sconforto e un inizio di sfiducia nelle sue capacità. Arjuna infatti era riuscito vittorioso laddove egli aveva fallito. Questo era indubbiamente un punto a suo sfavore, soprattutto se si teneva conto che le speranze di Duryodhana erano tutte riposte in lui. A quel punto bisognava fare qualcosa.

  Infine, dopo tanti ripensamenti, giunse a una soluzione.

  "Amico mio, ho avuto un'idea che credo ti piacerà," disse allora a Duryodhana. "In questo momento di scoraggiamento cosa ci sarebbe di meglio da fare se non celebrare un rajasuya per ribadire la tua supremazia? Io stesso viaggerò per tutta Bharata-varsha e da solo riporterò le stesse vittorie dei quattro Pandava. Seguirò i loro stessi tragitti, e sopraffarò gli stessi monarchi, in modo che si potrà dire che Karna ha lo stesso potere di tutti i Pandava messi assieme."

  E così, con l'approvazione degli anziani Kurava, il prode fi-glio di Surya viaggiò per lungo tempo e ottenne grandi trionfi: tornò ad Hastinapura portando con sè incalcolabili ricchezze e la promessa di fedeltà da parte di tutti i governanti del mondo.

  A quel punto il rajasuya poteva essere celebrato.

  Non appena i preparativi furono ultimati, Duryodhana convocò tutti al suo sacrificio, non tralasciando, con incredibile sadismo, di invitare anche i Pandava.

  "Sì, verremo, e presto," rispose Bhima a denti stretti, "ma non per questo sacrificio, bensì per un altro: quello che vedrà immolati tutti i figli di Dritarashtra insieme a Karna, a Shakuni e a coloro che saranno così folli da mettersi contro di noi. Tornate dal vostro re e riferitegli ciò che ho detto."

  Il rajasuya di Duryodhana fu grandioso, ma a detta di molti neanche lontanamente poteva paragonarsi a quello di Yudhisthira. Ciò nonostante, alla fine del sacrificio questi si sentiva raggiante.

  "O re e amico mio," aveva detto Karna durante lo svolgimento della cerimonia, "fa che io non sia accolto veramente nel tuo cuore finchè non avrò ucciso Arjuna. E giuro che fino a quel momento non mi laverò più i piedi nè mangerò più vivande sontuose."

  Dopo questo voto Duryodhana, che aveva riposto infinita fiducia nel suo più caro amico, considerò i Pandava già morti.

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La disavventura di Jayadratha

  Gli ultimi mesi d'esilio furono i più difficili per Yudhisthira. Era vero che in quel periodo la moglie e i fratelli non gli facevano più pesare il fatto di essere stato il responsabile delle loro disgrazie, ma le notizie provenienti da Hastinapura lo preoccupavano in modo particolare. Era Karna colui che lo inquietava maggiormente, proprio perchè era amico fedele di Duryodhana. Bhishma e gli altri avrebbero sicuramente combattuto contro di loro, ma senza l'ardore che avrebbe invece impiegato questi.

  Per placare l'ansietà di Yudhisthira, decisero di spostarsi e di tornare a Kamyaka.

  Un giorno dalle loro parti passò Jayadratha, il re dei Sindhu. Nelle capanne non c'era nessuno, in quel momento, tranne Draupadi e il guru Dhaumya. Nell'attimo in cui il monarca passava alla testa delle sue truppe, la donna uscì e lui la vide sulla soglia, radiosa come la più bella delle apsara. A tale visione meravigliosa Jayadratha, scosso nei sensi, non riuscì più a continuare la marcia.

  "Kotikasya, amico mio," disse il monarca, "vedi anche tu la straordinaria bellezza che sta sulla soglia di quella capanna, o è un miraggio causato dalla stanchezza? No, io so che è vera. Desidero che diventi mia, sia lei una apsara, una kinnara, una yakshi, una dea, o che appartenga a qualsiasi altra specie umana o celeste. Per favore, vai da lei, e chiedile il nome suo e quello della famiglia."

  Questi, che era il re dei Trigarta e un amico intimo di Jayadratha, fece come gli era stato chiesto. Tornò in breve tempo con le notizie.

  "Amico mio, hai messo gli occhi dove non dovevi metterli. Quella donna è della specie umana, ma è la moglie di cinque uomini potenti come i deva. Si tratta di Draupadi, figlia di Drupada e moglie dei fratelli Pandava. Contro di loro non c'è nulla da fare. E' meglio non importunarli. Andiamocene."

  Ma Jayadratha non connetteva più.

  Spinto dal destino e turbato nel più profondo da tanta leggiadria, non ascoltò minimamente i saggi consigli dell'amico e si precipitò di persona nella capanna.

  Dapprima si comportò con gentilezza, ma poi quando esternò a Draupadi le sue vere intenzioni, questa tentò di scacciarlo. Ma egli non ragionava più in termini di giusto o sbagliato, voleva solo che fosse sua. E nonostante la presenza del santo Dhaumya, la afferrò e la trascinò via, mentre lei urlava disperata i nomi dei mariti.

  Nel frattempo Yudhisthira aveva notato strani presagi che lo avevano allarmato.

  "Bhima, osserva come gli sciacalli ululano e l'intera parte sinistra del nostro corpo è scossa da fremiti incontrollabili. Ci sta accadendo qualche disgrazia. Noi siamo tutti qui e non corriamo alcun pericolo, però Draupadi è rimasta nella capanna senza protezione. Corriamo subito, e speriamo che non sia accaduto niente di grave."

  Appena furono tornati, si accorsero subito che qualcosa era successo; immediatamente gli attendenti raccontarono del rapimento. Rapidi come le aquile presero le armi e inseguirono le milizie di Jayadratha. Appena le avvistarono, lanciarono le loro grida di guerra, terrorizzando i soldati che conoscevano i Pandava di fama.

  In pochi minuti piombarono sul nemico e provocarono un'autentica carneficina; vedendo il suo esercito messo in fuga da soli cinque uomini, Jayadratha temette per la propria vita e anch'egli scappò precipitosamente con la donna sul carro. Ancora non voleva rinunciarvi. Ma Bhima e Arjuna lo videro, e videro anche la moglie, prigioniera sul carro; come furie scatenate, gridando, si lanciarono all'inseguimento.

  Vedendoli avvicinarsi e comprendendo che l'avrebbero raggiunto in pochi istanti, il re abbandonò il carro e fuggì da solo, a piedi. Mentre Arjuna si prendeva cura della moglie, Bhima lo raggiunse e lo picchiò duramente. Fu solo grazie all'intercessione di Draupadi che questi lo lasciò in vita, anche se lo privò della corona e gli tagliò i capelli con la lama della spada. Trascinatolo al cospetto di Yudhisthira, il virtuoso Pandava fu mosso a pietà.

  "Noi non ti uccideremo, non vogliamo che la nostra cara cugina Duhssala diventi vedova così giovane. Bhima ti ha già punito abbastanza: vai, dunque, e non tentare più di prendere con la forza donne indifese che non siano consenzienti."

  Jayadratha se ne andò senza dire niente, ma non riuscì mai a dimenticare l'umiliazione.

  Nel corso del tempo compì severissime ascesi, solo per avere il potere necessario per vendicarsi e sconfiggere i Pandava. Trascorse molti anni sulle rive del Gange a meditare e a mortificare il corpo e la mente: quando alla fine gli apparve Shiva, questi volle conoscere il motivo che lo aveva spinto a tante austerità.

  "Voglio da te, o Shankara, la forza necessaria per vincere i Pandava in guerra," gli disse.

  "Mi stai chiedendo una cosa impossibile," rispose la divinità. "Finchè Krishna è dalla loro parte non è possibile batterli. Neanche io stesso, con tutto l'esercito dei deva a sostegno, potrei fare una cosa simile. Krishna e Arjuna sono invincibili. Però se farai in modo di trovarti di fronte agli altri quattro Pandava senza che Krishna e Arjuna siano nelle vicinanze, allora ci riuscirai. Tuttavia non potrai ucciderli, ma soltanto sconfiggerli in duello."

  Jayadratha non potè fare altro che accontentarsi.

  Nei giorni che seguirono l'incidente, il rishi Markandeya tornò, e ancora deliziò Yudhisthira con le sue storie e i suoi saggi consigli.

  "Io credo di avere avuto una vita sfortunata," disse Yudhisthira. "Siamo sempre stati perseguitati dai nemici e dalle avversità, e non abbiamo mai potuto godere di un lungo periodo di serenità. Dimmi, c'è mai stato un re tanto sventurato quanto lo sono stato io?"

  "In confronto ad altri non puoi proprio lamentarti," gli rispose. "Ricordi che ti narrai la vicenda di Nala? Oggi ti racconterò la sacra storia di Rama, il quale si ritrovò in esilio come te nella foresta, ma senza la compagnia di tanti brahmana e amici; e per la maggior parte del tempo fu anche privato della propria moglie. Ascolta."

  Dopo avergli recitato il famoso Ramayana del rishi Valmiki, Markandeya raccontò anche come Savitri fosse riuscita a fronteggiare Yama con la sola forza dell'amore per il marito.

  Mancavano pochi mesi alla fine del dodicesimo anno.

63
Il lago misterioso

  Un giorno, trafelato e visibilmente preoccupato, venne da loro un brahmana.
  "Voi siete i figli di Pandu," disse, "e siete degli kshatriya. Il vostro sacro e primo dovere è quello di aiutare i brahmana, per cui, vi prego, non abbandonatemi. Ho bisogno di voi."

  Yudhisthira rispose:

  "Pio asceta, non temere nulla. Dicci qual è il problema che ti assilla e noi faremo l'impossibile per risolverlo."

  "Poco fa," disse il brahmana, "stavo accendendo il fuoco e ho appoggiato per pochi istanti i miei bastoni arani vicino a un cespuglio. Un cervo che passava lì da presso me ne ha inavvertitamente portato via uno. Allora l'ho inseguito, ma lui è scappato con la velocità del vento e non sono riuscito a raggiungerlo. Senza quel bastone io non posso accendere il fuoco sacro. Vi prego, recuperatelo e ve ne sarò eternamente grato."

  I Pandava si lanciarono alla ricerca dell'animale, ma quando lo avvistarono e tentarono di raggiungerlo, non ci riuscirono. Come aveva detto il brahmana, sembrava che corresse rapido come il vento. I fratelli corsero a lungo sotto il sole cocente e dopo molto tempo, stanchi e scoraggiati, si gettarono all'ombra di un albero, sentendosi ardere da una sete insopportabile.

  "Nakula, fratello mio," disse Yudhisthira, "sali su quest'albero e vedi se nelle vicinanze c'è qualche lago o ruscello dove possiamo dissetarci."

  "C'è un laghetto poco lontano da qui," disse Nakula dopo che fu salito.

  "Vai a prendere acqua per tutti, visto che siamo troppo stanchi."

  Felice di poter finalmente bere, il Pandava corse in direzione del lago e appena arrivò si affrettò a riempire il contenitore. Ma assillato com'era dalla sete, pensò di bere lui per primo. Una voce possente lo fermò.

  "Fermati! Questo lago è di mia proprietà e non puoi bere. Se lo farai, morirai. Ma se saprai rispondere alle mie domande, ti concederò di dissetarti senza pericolo."

  Nakula si guardò in giro e non vide nessuno; spinto dall'arsura bevve l'acqua e cadde avvelenato.

  Gli altri aspettarono a lungo poi, non vedendolo tornare, Yudhisthira disse a Sahadeva di andare a cercare il fratello. In breve questi arrivò al lago e vide Nakula disteso in terra, senza più vita. Disperato per quella tragedia ma anch'egli torturato da una sete insopportabile, pensò di bere. La stessa voce lo bloccò.

  "Fermati! Se berrai quest'acqua prima di aver risposto alle mie questioni, morirai."

  Sahadeva scrollò le spalle e bevve. Lui pure, ucciso da quel potente e misterioso veleno, cadde al suolo senza più vita.

  La stessa sorte toccò ad Arjuna e poi a Bhima. Spaventato per l'inspiegabile ritardo dei fratelli e torturato da una sete intollerabile, Yudhisthira corse di persona sul posto, e lì trovò tutti i suoi fratelli distesi in riva al lago esanimi. Ma quella terribile sete prevalse sul dolore della morte dei fratelli: nel momento in cui stava per bere qualche goccia, la voce misteriosa lo fermò.

  "Fermati! Se berrai quest'acqua ancor prima di aver risposto alle mie domande morirai come sono morti i tuoi fratelli."

  Yudhisthira riuscì a controllare il disturbo della sete e rispose alle difficili questioni di carattere filosofico e morale. La voce misteriosa, soddisfatta, gli disse:

  "Hai risposto bene ai miei quesiti e meriti un premio. Riporterò alla vita uno dei tuoi fratelli. Dimmi, chi vuoi con te più degli altri?"

  "Fa che sia Nakula a tornare in vita."

  "Perchè proprio Nakula," chiese la voce con tono stupito, "e non Bhima dalla forza sovrumana, o Arjuna dal valore incontenibile per gli stessi dei? Nella guerra che dovrete combattere, uno di questi due ti sarebbe stato di maggiore aiuto."

  "Se è destino che tre dei miei fratelli debbano morire, io devo assicurare soddisfazione anche a Madri, ed è giusto che torni in vita uno dei suoi figli. Kunti ha già me, Nakula rappresenterà l'altra moglie di Pandu."

  Per un attimo ci fu silenzio; poi la voce risuonò ancora.

  "Sono molto contento della tua rettitudine e della tua saggezza, e quindi io farò rivivere tutti i tuoi fratelli. Sappi che io sono Yamaraja, tuo padre, e ho voluto metterti alla prova: sono stato io, infatti, a prendere il bastone del brahmana e a procurarvi quella sete intollerabile. Sono molto fiero di te. Io ti benedico: che tu possa mai deviare dalla strada della virtù."

  Dopo aver recuperato il bastone, i Pandava ritornarono all'ashrama.

  E proprio in quei giorni scadde il dodicesimo anno di esilio.

  Ora avrebbero dovuto trascorrere un anno senza farsi riconoscere da nessuno, altrimenti sarebbero stati costretti a tornare nelle foreste per altri dodici anni.

  In quei giorni l'argomento maggiormente discusso riguardò il luogo in cui avrebbero dovuto passare quell'ultimo periodo di esilio.

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