In questa sezione introduttiva si parla della struttura dell'epopea come è nota a noi oggi e della sua prima ricostruzione eseguita da George Smith, lo scopritore della saga nel 1872. In chiusura si affronta il problema del finale della saga.

Le prime tracce dell'Epopea di Gilgamesh furono portate alla luce tra le rovine della biblioteca di Assurbanipal e del tempio di Nabu a Ninive verso la metà dell'800. Pur da pochi lacunosi documenti fu possibile fin dall'inizio risalire alla struttura generale dell'opera e al suo numero di versi.

I cataloghi

I popoli dell’antico oriente non avevano l’abitudine di dare un titolo alle composizioni letterarie, né gli scrittori di allora spasimavano per avere il proprio nome inciso sulle tavolette (p. 12 Pet 1992). L’Epopea di Gilgamesh è quindi un titolo coniato da noi moderni, e la sua attribuzione ad uno specifico autore è dovuta alle scuole tribali dei periodi posteriori.

Secondo il costume degli scribi babilonesi e, prima di loro, sumerici, un’opera letteraria era citata nei cataloghi, che ci sono giunti in numero considerevole, riportando la sua riga iniziale. Così, scorrendo il catalogo di una biblioteca del primo millennio a.C., avremmo potuto trovare

Sha naqba imuru (trad. "di colui che vide ogni cosa")

che è appunto il primo verso della versione canonica. In una biblioteca del secondo millennio a.C. avremmo invece trovato

Shutur eli sharri (trad. "egli è superiore agli altri re")

che è il primo verso del poema paleobabilonese, versione all'epoca in circolazione.

Infine, nel catalogo di una biblioteca sumera della fine del III millennio (come quella di Nippur) avremmo invece trovato non uno ma numerosi incipit, uno per ogni poemetto legato alla figura di Gilgamesh:

Lu kij-gi-a ag (trad. "Gli inviati di Agga...", inizio di "Gilgamesh e Agga")

En-e kur lu til-la-ce (trad. "Il signore del paese del vivente...", inizio di "Gilgamesh e Huwawa" versione A)

I-a lum-lum (trad. "Evviva!", inizio di "Gilgamesh e Huwawa" versione B)

Cul me-ka (trad. "Eroe in battaglia...", inizio di "Gilgamesh e il Toro Celeste")

Ud re-a (trad. "Tanto tempo fa...", inizio di "Enkidu agli inferi")
(vv. 7, 10-14 da OB catalogue from NIBRU N2, dal sito ETCSL)

A rendere complicata l'identificazione di un'opera era poi il fatto che frequenti erano le composizioni con lo stesso inizio. Per esempio, l'ultimo fra gli incipit citati ("Tanto tempo fa...") era comune non solo al poemetto della discesa agli inferi di Enkidu, ma anche alla Sfida tra Enki e Ninmah, al Viaggio di Enki a Nippur e alle Istruzioni di Shuruppak! Del resto, non iniziano tutte le fiabe con un bel "c'era una volta..."?

I colofoni

Oltre ai cataloghi, che elencano le opere conservate in una Biblioteca, abbiamo un altro elemento per determinare i titoli dei testi antichi, e cioè le annotazioni scribali alla fine di una tavoletta. Ciò vale soprattutto per le composizioni il cui testo era suddiviso, perché troppo lungo, in più tavole. Tali annotazioni, dagli studiosi definite con il nome greco di colofoni, possono essere molto semplici

Tavola I: "Di colui che vide ogni cosa". Serie di Gilgamesh

oppure assai eleborate

Tavola XII della serie di Gilgamesh; si tratta di quella finale. La tavola è stata ricopiata secondo l'originale e quindi archiviata.
Tavoletta dello scriba Nabu-zuqup-kina, figlio di Marduk-shuma-ikisha, discendente di Gabbi-ilani-eresh, il capo scriba
(colofone riportato in Dag 1997 p. 39)

Il numero di colofoni relativi alla stessa composizione ci consente di capire il numero minimo di esemplari archiviati in una biblioteca, anche in assenza del catalogo. Per esempio, nella Biblioteca di Assurbanipal  sono stati rinvenuti ben quattro colofoni della tav. VI - mentre per tutte le altre da uno a tre. Possiamo quindi affermare che vi erano conservate almeno quattro copie dell’Epopea classica .

Un colofone poteva contenere moltissime informazioni e, ancor oggi qualunque assiriologo che si accinga a tradurre un testo controlla prima di tutto il colofone. Le informazioni che vi si possono leggere possono essere determinanti per capire il contenuto e la provenienza del documento:

Che gli scribi antichi non considerassero una qualsiasi tavola precedente l’ultima come qualcosa di unitario e in sé concluso, è dimostrato da alcuni colofoni ittiti che, talvolta, dopo la I e II tavola, aggiungono l’annotazione "non finita":

Tavola I: "Di colui che vide ogni cosa". Canto di Gilgamesh. Non finita

come pure dal colofone della XII tavola dell’Epopea classica che recita:

Tavola XII: "Di colui che vide ogni cosa". Serie di Gilgamesh. Finita

Una costante di tutti i colofoni rinvenuti, oltre alla citazione della prima riga è l’aggiunta: "Serie di Gilgamesh". Va rilevato che, a differenza dell’Epopea classica, nei cui colofoni compare "Serie di Gilgamesh", quella ittita ha forse un titolo vero e proprio, quello di "Canto".

"Serie di Gilgamesh" non può essere considerato un titolo poiché è un tipo di annotazione scribale che si riscontra in moltissime opere costituite da più tavole. Per esempio un colofone dal Libro dei Sogni assiro, anch'esso proveniente dalla biblioteca di Assurbanipal recita:

"Se un uomo nel suo sogno è vestito d'argento".
Tavola IV: Serie del dio Ziqiqu,
palazzo di Assurbanipal, re d'Assiria, re della totalità...
a cui gli dei Nabu e Tashmetu hanno donato intelligenza
e che possiede occhi acuti...
Tra i re miei predecessori
(citato in Sap 1996 p. 195)

Già la designazione di "Canto" porta inevitabilmente alla struttura dell’Epopea in forma poetica: è questo infatti il significato originale del termine sumerico shìr con cui vengono indicate tutte le opere in poesie. L’epopea assira è quindi strutturata in versi a differenza di altre versioni, come l’epopea ittita, scritta chiaramente in prosa.

In conclusione, dai documenti a nostra disposizione veniamo informati che la grande composizione constava di 12 tavole, come fin dall’inizio della sua scoperta ebbe a riconoscere lo stesso George Smith.

Prima ricostruzione dell'epopea di Gilgamesh

George Smith individuò fin dall'inizio, con incredibile precisione, il numero di tavole dell'Epopea di Gilgamesh, la loro divisione, e il numero di versi. L'argomento e la finalità dell'epopea rimasero a lungo oggetto di congetture a causa dello stato fortemente lacunoso dell'opera, come mostra la prima ricostruzione dell'opera che compare nel Chaldean account of Genesis (1875).

«Le leggende di Izdubar sono incise su 12 tavole, di cui ci rimangono almeno quattro edizioni. Tutte le tavole sono in frammenti e nessuna è completa, ma è una coincidenza fortunata che quella in migliori condizioni sia l'undicesima, che descrive il diluvio, ed è quindi la più importante della serie.

Tutti i frammenti delle nostre copie appartengono al regno di Assurbanipal, re di Assur, nel settimo secolo a.C. Dallo stato mutilato di molti di essi è impossibile farsi un'idea precisa del significato delle leggende. Molti parti andate perdute sono state quindi compensate da congetture e persino l'ordine di alcune tavole è incerto. Nel mio studio ho voluto dividere i frammenti in gruppi corrispondenti approssimativamente con gli argomenti delle tavole.

Ogni tavola era divisa in sei colonne di testo [tre nella parte anteriore e tre in quella posteriore], ognuna di 50 righe circa per un numero complessivo di 3000 versi di testo cuneiforme. Ecco la divisione da me adottata allo stato di conoscenza attuale dei frammenti.

Tavola I (frammenti terza colonna)

possibile argomento: conquista di Babilonia degli elamiti, nascita e parentela di Izdubar

Tavola II (frammenti terza e quarta colonna)
Tavola III (quasi integra a parte lacune prima e sesta colonna)

Probabile argomento: sogno di Izdubar, arrivo di Heabani a Uruk

Tavola IV (frammenti dalle prime tre colonne)
Tavola V (prima e seconda colonna)

Probabile argomento: scontri con animali selvaggi, uccisione del tiranno Khubaba

Tavola VI (integra con poche lacune)
Tavola VII (quinta e sesta tavola ricostruite per congettura dalla discesa di Ishtar agli inferi)

Probabile argomento: l'amore di Ishtar per Izdubar, altri amori di Ishtar, sua salita al cielo, distruzione del suo toro, sua discesa all'inferno

Tavola VIII (possibili frammenti delle prime tre e dell'ultima colonna)
Tavola IX (conservata con lacune)
Tavola X (conservata con lacune)

Probabile argomento: discorso agli alberi, sogni, malattia di Izdubar, morte di Heabani, peregrinazioni di Izdubar in cerca dell'eroe del Diluvio.

Tavola XI (quasi integra)
Tavola XII (frammenti delle prime 4 colonne, ultima quasi integra)

Probabile argomento: descrizione del diluvio, cura di Izdubar, sue lamentazioni su Heabani»

(Smi 1876 p. 170-172, traduzione di T. Porzano © 2001).

Noterete che nel testo di Smith non compare mai il nome "Gilgamesh". Ai tempi di Smith gli assiriologi, non sapendo ancora come pronunciare i caratteri cuneiformi, utilizzavano una pronuncia sillabica provvisoria. Eccovi dunque la chiave di lettura: Izdubar al posto di Gilgamesh, Heabani al posto di Enkidu.

Il finale della discordia

Ad alcuni non piace il finale che si trova nella XII tavola perché apparentemente slegato dalle precedenti vicende. Altri finali, appartenenti a versioni precedenti o coeve, vengono a volte proposti.

Un tema ozioso di cui ogni tanto si torna a parlare è quello legato alla conclusione del poema. Si preferisce considerare la saga come strutturata dalle prime undici tavole ed incollare finali apocrifi (per esempio il canto funebre di Gilgamesh) rispetto alla versione canonica. Tuttavia si consideri che in base alla catalogazione assira per colofoni la forma canonica dell'epopea consiste delle sole 12 tavole che ho riportato nel sito e che non include in alcun modo la morte di Gilgamesh. La morte dell'eroe per quanto suggestiva (predizione di Enlil, visione dell'eroe immobile sul letto,...) stravolgerebbe il messaggio finale fortemente educativo dell'epopea classica.

Nell'ambito della versione canonica l'interpolazione della morte di Gilgamesh rimane un gesto gratuito e inutile sul piano narrativo; un po' come far morire Achille nell'Iliade (1). Che l'eroe debba morire è scontato e inevitabile ma all'autore non interessa sviluppare in versi l'inesorabile destino bensì educare alla sua consapevolezza (vedi paralleli con l'epica greca).

Che la tavola XII sia un inserimento posteriore di Sinlequiunnini è quasi certo; che essa sia meno affascinante rispetto al canto funebre di Gilgamesh è a mio parere ipotesi tendenziosa: la visione disperata dell'aldilà mesopotamico rimane insuperata nella sua splendida e asciutta descrizione; che essa si integri col resto dell'epopea secondo un piano educativo del sovrano (tesi di Pettinato in Pet 92) è discutibile.

Tutto ciò può autorizzare certi autori a rimpiazzare deliberatamente la XII tavola con altri finali ritenuti più azzeccati? La Sandars (San 1994), per esempio, 1) rinuncia a rendere l'epopea in versi, 2) rinuncia alla suddivisione in tavole, 3) integra o sostituisce il canone con fonti non assire ritenute di qualità superiore. Tutte queste operazioni sono assolutamente arbitrarie ed allontanano il lettore dalla comprensione dell'opera (2).

All'epoca della stesura del canone il tema della discesa agli inferi era molto popolare e gettonato (come il mito di Ishtar agli inferi dove ricompaiono temi e personaggi del Gilgamesh) e non a caso fu scelto come finale ufficiale del poema. Così com'era molto popolare il mito dell'Atramkhasis. Infatti anche gran parte della tavola del diluvio è un'interpolazione.

Cosa ci autorizza allora a togliere la discesa di Enkidu agli inferi e a lasciare invece il diluvio? Cosa autorizza a modificare un'opera compiuta in virtù di un gioco accademico arbitrario? La SUMERICA "morte di Gilgamesh" potrebbe costituire un finale più soddisfacente, per l'apparente incompatibilità col resto della saga della discesa agli inferi di Enkidu, ma purtroppo, non è stata scelta dall'autore ASSIRO del canone.

Altrettanto discutibile è quanto fanno certi autori accorciando l'epopea di una tavola anche se l'effetto drammaturgico è altissimo. Per esempio in "Gilgames o la mortalità" (vedi Bibliografia) si ignora la XII tavola considerando finale migliore il semplice ritorno di Gilgamesh a Uruk. A giustificazione si adduce che "nel vero poema epico l'inizio è la fine e la fine è la ripetizione dell'inizio. Il poema di Gilgamesh inizia e termina con la lode delle mura di Uruk". Non volendomi fossilizzare su una posizione ortodossa non posso fare a meno di osservare che, per quanto basata su errori interpretativi, tale analisi rimane molto suggestiva.


  1. Anche l'Odissea sarebbe forse più divertente eliminando la Telemachia e sostituendola con alcune delle avventure apocrife di Ulisse, oppure venendo subito al sodo dopo l'arrivo a Itaca del protagonista, facendo a meno delle interminabili reticenze verso gli astanti. Ma non sarebbe più l'Odissea, e soprattutto non sarebbe più l'Odisseo che conosciamo! Per un approfondimento rimando alla mia lezione sui miti del ritorno degli eroi omerici. (torna su)

  2. Col tempo ho moderato questa mia posizione oltranzista, come si può notare nella mia recensione a >Gilgamesh: il primo eroe, antiche storie della Mesopotamia di Simonetta Ponchia per i tipi Nuove Edizioni Romane, ottobre 2000. (torna su)